LIRICA/ La Turandot di Bob Wilson illumina l’Opera di Parigi

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(dalla nostra corrispondente Antonella Zangaro)
Sono tre i colori in scena nella Turandot avant guard che Robert Wilson ha portato all’Opera di Parigi. Il rosso della regina di ghiaccio che fa decapitare tutti i suoi pretendenti, sottoposti a complicati indovinelli usati per sbarazzarsene, preservando così la sua purezza; il bianco per i tre stranieri, Timur, la sventurata Liù, uccisa dalla implacabile fedeltà per il suo cuore e Calaf che coraggioso in guerra ed in amore scioglie gli enigmi e nella notte avvolta nel blu profondo conquista il cuore di Turandot, perché all’alba lui vincerà. La luce è studiata con altrettanta ossessione e puntigliosità e contribuisce a creare l’essenza del teatro con la firma del regista texano, oggi 82enne, che, anziché indagare nella psicologia dei personaggi immaginati nel libretto di Carlo Gozzi e messi in musica da Giacomo Puccini, preferisce un effetto diretto ed istintivo. La musica deve guidare insieme alla luce; un tratteggio che non permette distrazioni ma può solo essere assecondato.

Turandot © Agathe Poupeney

La sua estetica non è fatta di movimento, esattamente come nella tradizione del teatro dell’antica Cina dove è ambientata la favola di Turandot La principessa gelida è pietrificata sul palco de l’Opera di Parigi per assecondare questa sua essenza. Sulla scena non c’è spazio per nessuna espressione che possa trapelare dal volto dei protagonisti e nessuna interazione si genera tra i solo corpi. la staticità segna il ritmo immobile scandito da luci bidimensionali e colori cardinali. A rompere la geometria assoluta c’è solo la musica dell’orchestra guidata da due maestri italiani; Marco Armiliato, alla direzione nelle repliche fino al 19 novembre e Michele Spotti a raccoglierne il testimone fino a chiusura, il 29 dello stesso mese. L’orchestra è la vera protagonista dell’opera, quella che non si vede ma che l’estetica minimalista di Wilson illumina più di ogni altra finzione scenica. Robert Wilson è amatissimo in Europa ed in Italia; nel 2019 inaugurò anche la stagione del Teatro Comunale di Bologna con Il Trovatore di Giuseppe Verdi e con l’occasione firmò il libro d’onore di palazzo D’Accursio. Regista, pittore, scultore, coreografo, video artista e designer di luci e suoni è stato scelto dall’Opera di Parigi per avvicinare i giovani alla cultura musicale e operistica, mentre resta in lui il rimpianto di essere meno amato negli Stati Uniti dove, all’inizio, ha dovuto combattere contro i pregiudizi e una fredda accoglienza del suo stile assolutamente privo di naturalismo.

Turandot © Agathe Poupeney

Intervistato dal New York Times circa la performance in scena a Parigi, l’autore texano ha ironizzato sulla staticità che lo caratterizza e lo accomuna con il tratto teatrale tipicamente orientale. Gioca, sulla struttura creata per la sua Turandot, principessa algida che lui immagina segretamente divertita dalla sua stessa crudeltà nello sbarazzarsi di indesiderati pretendenti, ma sopratutto gioca (indugiando forse un pò troppo) sulla macchiette caricaturali con cui tratteggia i tre ministri Ping Pong e Pang, gli unici che si muovono sul palco con espressioni esagerate chiaramente tratte dai giullari del teatro cinese. Non c’è verismo nella sua regia, la sua rappresentazione è solo evocazione. Non c’è emotività nella recitazione ma una gestualità rigida e volutamente marcata. Lo sfondo è protagonista della scena tanto quanto gli attori e l’unico che conquista la capacità di muoversi liberamente sul palco è Calaf. Lui, a Parigi interpretato da Brian Jagde e Gregory Kunde, incendia il teatro con ‘Nessun dorma’ così come accende la lama di luce che taglia lo sfondo annunciando l’arrivo dell’alba vittoriosa.

Turandot © Agathe Poupeney

In questo contesto caparbiamente anti naturalistico, forzosamente rigido e statico, Turandot resta intrappolata nella bi dimensionalità dei suoi movimenti e delle sue espressioni esattamente come fa il suo cuore nella freddezza dei suoi sentimenti. La luce dell’alba la rincorre in un faro solitario che illumina i suoi passi rigidi e stentati mentre promette amore al suo coraggioso cavaliere. Tra loro sul palco non ci sarà mai nessun contatto, nessuna evocazione del melodramma. Nessun personaggio ruberà mai la scena agli unici protagonisti del teatro di Wilson, la luce e la musica.

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